giorno 5: KUCHING

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Tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019, ho rivoluzionato la mia vita: cambiato lavoro, mollato il fidanzato e ricominciato tutto da capo. Per quanto sia soddisfatta di come stanno andando le cose, sono arrivata alle ferie esausta. In primavera mi sono presa una cotta clamorosa e non è andata come speravo, e per tirarmi su mi sono lanciata in una serie di Tinder date tanto discutibili quanto perfetti come materiale per far ridere gli amici. “Un’estate pazza, a settembre poi vediamo,” mi ripetevo, e così avevo deciso di partire per un posto dove i cellulari non prendessero: il classico taglio netto, per staccare da tutto, e poi si vedrà.

Peccato che in Malesia i cellulari prendano ovunque, e pure benissimo.

Hongbin via Unsplash

L’umore con cui mi sono svegliata non è dei migliori, ma per la mattinata è in programma una visita a un centro di riabilitazione che ospita oranghi, e penso che mi farà bene stare un po’ nel verde.

Quando attraversavo i parchi americani in macchina, mi emozionava vedere cervi o cavalli attraversare la strada, ma la vera magia l’avevo provata in Uganda: una giraffa che correva aveva fatto commuovere persino me. Invece, vedere gli oranghi nella riserva in Malesia, circondati da turisti intenti a fotografarli mentre i ranger allungano biberon di latte, mi lascia un senso di disagio difficile da ignorare.

Cecelia Chang via Unsplash

In Malesia, gli oranghi possono essere osservati principalmente nelle riserve naturali e nei centri di riabilitazione nel Borneo malese, suddiviso tra gli stati del Sarawak e del Sabah. Quello che visitiamo noi è il Semenggoh Wildlife Centre, circa 20 km a sud di Kuching. È uno dei luoghi più famosi per vedere oranghi semi-selvatici. Qui gli oranghi vengono riabilitati per essere reintrodotti nella foresta. Il momento migliore per vederli è durante i pasti (mattina e pomeriggio), quando gli oranghi lasciano la foresta per raggiungere le piattaforme di alimentazione.

Con i gorilla di montagna, in Uganda, l’esperienza era stata completamente diversa: ci eravamo alzati nel cuore della notte, avevamo camminato per ore in piccoli gruppi e in silenzio per trovarli, senza disturbarli. In Malesia, invece, è sufficiente percorrere qualche centinaio di metri di sentiero con altri turisti. Li troviamo subito, ma non mi fa nemmeno piacere fotografarli: non è la stessa cosa. Di umore piuttosto tetro, mi avvio con il gruppo verso la città.

A Kuching, che significa “città dei gatti” – e considerando le statue feline sparse ovunque, il museo dedicato e i souvenir rigorosamente a tema, qui la cosa viene presa seriamente – il caldo è insopportabile.

Kuching è un crocevia di culture: malesi, cinesi, dayak e indiani convivono da secoli, e questo si capisce dai templi buddisti, dalle moschee e dalle chiese sparse per la città, oltre che nelle celebrazioni e nei piatti tipici.

Questa città del Sarawak è un vero melting pot culturale: malesi, cinesi, dayak e indiani convivono da secoli, e lo si percepisce chiaramente nei templi buddisti, nelle moschee e nelle chiese che punteggiano le strade, ma anche nei piatti tipici e nelle vivaci celebrazioni che animano la città.

Il cuore pulsante di Kuching è il fiume Sarawak, lungo le cui sponde si snodano alcune delle attrazioni più caratteristiche: il Kuching Waterfront, una passeggiata piena di vita con ristoranti, bancarelle e artisti di strada; il maestoso Astana, l’ex residenza del Rajah Bianco e oggi dimora del governatore; e il futuristico Darul Hana Bridge, una passerella pedonale a spirale che collega i due lati del fiume.

Girare per le strade deserte sotto il sole delle due del pomeriggio fa presto saltare i nervi a tutti, quindi il pomeriggio naufraga in un baretto di Carpenter Street, davanti a delle birre ghiacciate e a un generale stato di scazzo. Poi, due eventi del tutto imprevedibili cambiano le sorti della giornata: prima, lo stupore di un tramonto incredibilmente rosa sul fiume; poi, il panico puro quando ci rendiamo conto che uno di noi ha perso il passaporto.

imaad whd via Unsplash

Perdere i documenti al quinto giorno di un viaggio intercontinentale, con voli interni e trasferimenti su mezzi improbabili, non è mai una buona idea. Eppure, dopo lo shock iniziale, decidiamo di dividerci (proprio come si fa nei film horror) e tornare indietro, ripercorrendo i quattro o cinque chilometri fino al bar. Incredibilmente, il passaporto è ancora lì: era caduto sotto il tavolo, e il cameriere aveva persino provato a richiamarci, ma non lo avevamo sentito (giuro, non eravamo ubriachi: era il caldo!). Ritrovarci tutti tra la folla della fiera è un’impresa titanica, ma incredibilmente ce la facciamo.

L’attimo in cui ci abbracciamo tutti insieme, con Fra che brandiva il passaporto (nella foto aveva ancora i capelli), ci ripaga un po’ della giornata. Quasi valeva la pena di perderlo, quel passaporto. Quasi.

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