My favorite thing about camping is when I don’t.
Forse l’ultima notte al Camping Cabo San Juan non è stata la peggiore della mia vita, ma una menzione d’onore nella top 5 delle disavventure notturne se la merita tutta.
Non sono nemmeno le otto, e abbiamo appena finito di cenare con l’immancabile pesce fritto, quando un acquazzone improvviso ci coglie con i gomiti ancora incollati ai tavoli appiccicosi. Scatta il panico: tutti corrono a sistemarsi per la notte, nel tentativo disperato di mettersi al riparo prima che la situazione degeneri. E credimi, a Cabo San Juan degenerare è solo questione di minuti.

Il nostro rifugio per la notte si rivela una canadese blu a due posti dall’aria miseranda. Convinti della solidità della nostra (presunta) organizzazione, ci puliamo i piedi infangati con salviettine che sembrano più un atto simbolico che un’effettiva misura igienica, e ci infiliamo dentro.
La scena interna non delude le aspettative: due materassini sudici e un caldo opprimente. Io e il mio compagno di sventura, già mezzo intontito dal paracetamolo, ci fissiamo senza parlare, ciascuno sudando copiosamente nel proprio sacco lenzuolo.
«Lo sai che la Tachipirina 500, se ne prendi due…»
«Non credo sia il momento, grazie.»
La zanzariera, che dovrebbe proteggerci dalla dengue, contribuisce invece a farci boccheggiare come pesci fuori dall’acqua. Il rischio concreto di venire attaccati da formiche o altri ospiti indesiderati ci convince a tenerla comunque chiusa.

Rimaniamo in silenzio per un po’, finché non diventa evidente che dormire è un’utopia. Passiamo quindi al piano B: adagiarci sopra il sacco lenzuolo, immobili come mummie, nella speranza di ridurre al minimo il contatto con i materassini — fonti probabili di almeno 23 diverse malattie dermatologiche.
Finalmente, prendo coraggio e dico quello che stiamo pensando entrambi:
«Sai che ridere se non siamo andati alla Ciudad Perdida per evitare di prendere le piattole, e poi ce le becchiamo qui?»
«Questa cosa con gli altri non dovrà mai uscire. Noi siamo venuti al mare, abbiamo fatto la bella vita e bevevamo Mojito dalla mattina alla sera, ok?»
Lui, stordito dal caldo e dalla Tachipirina, sfatto dall’asma e dalla bronchite, crolla addormentato, russando piano. Fuori piove a dirotto. Saranno appena le 20:30. Cerco di leggere qualcosa per distrarmi, finché una goccia non mi centra in piena faccia. Ignorare la situazione diventa presto impossibile.
«Davide… sta piovendo.»
Sbuffando, lui esce alla cieca, senza lenti a contatto e con la torcia frontale, alla ricerca della mitica cerata con cui tutti sembrano ripararsi. Non torna più. Quando finalmente inizia a coprire la tenda, sento l’aria farsi sempre più rarefatta. Non si respira.
Ma mica glielo posso dire subito.
Ci guardiamo.
«Non si può stare qua dentro così.»
«Eh, no.»
Questa volta mi offro io per uscire. Nel togliere la cerata, riesco a rovesciarmi addosso una cascata di acqua fangosa. Sono fradicia, e non saranno nemmeno le undici. Dormire ormai è un miraggio.
Dalla fila di tende dietro, scorgo un tipo che, con tutta la calma del mondo, sta facendo yoga. Vorrei ucciderlo.
«Senti, accompagnami in bagno. Così, per passare il tempo. Sono sempre cinque minuti in meno qui dentro.»
Quando torniamo, anche gli altri due sono fuori dalla loro tenda, e almeno possiamo condividere il delirio.
«Ma le salviettine?»
«Eh, finite.»
«E i piedi?»
«Eh, vabbè.»
«Silvia, io voglio andare a casa.»
Il mio sacco lenzuolo, un tempo bianco, sfoggia ormai una vasta palette di macchie fangose. Piove, poi smette, poi ricomincia. Il mio compagno di sventura si riaddormenta (beato lui) e io rimango sveglia, seduta a gambe incrociate davanti all’entrata della tenda, cercando di catturare almeno un filo d’aria.
Intorno, il buio è totale. Le palme sopra di me restano immobili, pesanti, come se anche loro avessero deciso di arrendersi.
Poi, il silenzio assoluto. Guardo il mio compagno di tenda, luccicante di sudore, e per un attimo penso: è morto. Mi avvicino per controllare, ma respira. Forse sono io che sto perdendo la testa.
Il buio comincia a schiarirsi, l’aria diventa appena più tollerabile, e alla fine crollo. Dormo, forse, mezz’ora. Quando riapro gli occhi, il cielo è di un pallido color perla e il mio compagno, il “morto”, si risveglia a sua volta.
«È mattina, cazzo. Ce l’abbiamo fatta.»

Piove ancora. I colori sono opachi, tutto sembra sbiadito. Mi alzo, e la stanchezza è così pesante che mi gira la testa. Non ci vuole molto per decidere: basta Cabo San Juan. Non rimarremo un minuto di più.
Quando arriviamo al nuovo campeggio di Playa La Piscina, sembra di essere entrati in un’altra dimensione. C’è un vero ristorante. I bagni sono puliti. Le docce non hanno nemmeno un accenno di melma verde. E le amache? Di una tela bianca immacolata, ognuna con la sua zanzariera. Ogni volta che qualcuno ci dorme, lavano tutto.
Un trip in paradiso.
Stendo il pareo sulla spiaggia e mi lascio cadere. Sotto il sole caldo, mi addormento all’istante. Finalmente, secca.

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