E cosa fai quando un’inquietudine ingestibile ti divora da dentro, proprio mentre sei in un paradiso tropicale, a piedi scalzi sulla sabbia bianca e con il mare che brilla sotto la luna?
Essenzialmente, passi le serate bevendo una birra dietro l’altra. È così che abbiamo conosciuto una coppia di ragazzi di Faenza, che abbiamo adottato senza troppe domande. Lui fabbrica shampoo ed è pelato – il che, diciamolo, è una grande garanzia. Lei, invece, è diventata la mia compagna di toilette dietro al chiosco, un’amicizia forgiata in momenti di assoluta necessità. La porta di quel bagno si chiudeva sempre peggio, finché una sera ha deciso di non chiudersi affatto. Da quel momento in poi, pipì con la porta spalancata e cambio turno da palo. Certe cose uniscono. Ci siamo giurate eterna amicizia, non ci siamo mai più riviste, non ricordo neanche il suo nome, ma le sarò sempre grata.

Di giorno si nuota, si fanno cose insensate come tentare di scendere a toccare il carapace di una tartaruga marina (spoiler: era troppo profondo), o semplicemente ci si abbandona al dolce far nulla, con le palpebre socchiuse e il sole che filtra tra le foglie.
Una sera decidiamo di farci portare in barca sull’altro lato dell’isola per il tramonto. Qui il paesaggio cambia: tre resort di lusso, famiglie ordinate e coppiette che non hanno mai nemmeno cambiato gli euro che avevano nel portafoglio. Bellino, sì. Ma, sinceramente? Preferisco la mia sgangherata spiaggia, con le patatine smarze e pure i topi.

Ceniamo in un ristorantino e, come sempre, non passiamo inosservati. Ma quando torniamo all’imbarcadero, la situazione prende una brutta piega: è buio pesto, la marea si è ritirata, il mare è agitato e nessuno, dico nessuno, vuole riportarci indietro in barca. Nemmeno per tanti soldi. Nemmeno supplicando.
C’è però un sentiero che attraversa l’isola e arriva dall’altra parte, passando dietro ai resort. Una rete con un cancelletto lo separa dalla spiaggia, e un bel cartello dice chiaro e tondo di non incamminarsi dopo le 20. Sono le 23. Siamo in ciabatte. Ma non abbiamo scelta.

Ci avventuriamo in fila indiana, con le torce dei cellulari che illuminano appena i rami bassi, le rocce e le pozzanghere. Ogni tanto qualcuno viene sfiorato da qualcosa e partono urla isteriche. Il sentiero è molto meno semplice del previsto, o forse è solo che è notte, siamo scalzi e coperti di punture di insetti. I rami mi devastano le gambe, il caldo è micidiale e vorrei strapparmi via la pelle a forza di grattarmi. Per fortuna, in alcuni punti bisogna tenersi a una fune, quindi almeno ho le mani occupate.
Dopo un tempo indefinito, la vegetazione si dirada, il suolo si fa pianeggiante e ci troviamo in un prato d’erba altissima, che ci arriva più o meno alla vita. L’atmosfera è surreale, tanto che mi aspetto quasi di vedere sbucare un branco di velociraptor. Invece, da lontano, intravediamo finalmente le prime luci.

Quando ricompariamo dal retro del chiosco dello Scuba Diving, ci guardano come se fossimo emersi dalle viscere dell’isola. Io scoppio a ridere, mollo tutto e mi metto a correre verso il mare. Mi tuffo, lasciando che l’acqua salata mi ripulisca da sudore, graffi e inquietudini.


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