Il letto è corto, il materasso sfondato al centro. La biancheria è umida e sa di muffa. Mi imbusto nel sacco lenzuolo, rassegnata. Fisso la luce che filtra tra le assi delle pareti, aspettando che il sonno mi prenda.
Poi, nel buio, il fruscio di un sacchetto di plastica. Socchiudo gli occhi. Sarà il mio compagno di stanza che si è alzato, penso. Peccato che il letto a fianco al mio sia occupato. Ma questo dettaglio mi sfugge, e mi riaddormento.
Un attimo dopo – o forse ore dopo – mi svegliano delle voci. La luce che passa attraverso le fessure del legno è bianca, è mattina presto. Sono i lavoranti della lavanderia, penso. “Non c’è pace a questo mondo.” Cerco di ignorarli, ma qualcosa non torna. Conosco quelle voci. E parlano italiano.

Apro la porta su un cielo color malva, le palme scure in controluce. Davanti a me, in pigiama e in evidente stato di shock, ci sono due ragazze. Una è quella che qualche giorno fa sosteneva, con gran serietà, che non posso definirmi una donna perché non possiedo scarpe col tacco.
“Ci sono i topi in camera!”
Le guardo. Annuisco. “Capita.”
“Ma io l’ho visto! Era in bagno! Ti prego, vieni tu e lo cerchi?”
Non capisco cosa dovrei farci, con un topo. Prenderlo con le mani? Portarlo fuori come si fa con le cimici?
“Non sarà rimasto lì ad aspettarci,” tento. “E se anche vengo e lo trovo, poi che faccio?”
“LO PRENDI!”
Vorrei tantissimo fingere di non aver sentito e tornare a dormire, ma è chiaro che non me la caverò così. Capisco che la soluzione più rapida è andare, constatare che il topo è fuggito al primo strillo e chiudere la questione. Mentre sono ancora sulla soglia, mi rendo conto di aver lasciato la porta aperta. Dalla penombra della stanza emerge una voce sepolcrale:
“Scusa, non volevo svegliarti. Le ragazze hanno un topo in camera, e…”
“Sì, chiudi la porta.”
Lancio un’occhiata che dovrebbe significare “Visto? Così si gestiscono le situazioni”, ma non viene colta. Quindi, mi rassegno alla perlustrazione più inutile della storia (“Ti dico che c’era! Io lì non ci rientro!”), mentre la mia funzione di unica altra persona sveglia alle cinque del mattino non è ancora terminata.

“Andiamo alla reception e diciamo che qua non ci dormiamo?”
“No.”
“Ti prego, vieni e glielo dici in inglese?”
“Ma perché devo dirglielo io? Lo sai anche tu l’inglese!”
Ormai sconfitta, mi incammino verso la reception del campeggio con le due che mi seguono come anatroccoli. Una è ancora muta, l’altra parla a raffica con un tono tra l’alto e l’altissimo. Alla reception trovo due locals ancora più scazzati di me, che liquidano la questione con un lapidario:
“La reception apre alle dieci.”
Sono le 5:45.
Al secondo “La reception apre alle dieci”, alzo le spalle e me ne vado. Le altre due mi seguono ancora. È evidente che la mia notte è finita.
“Ma dove vai?”
“A prendere la macchina fotografica.”
“Perché?”
“Per fare delle foto.”

Il cielo sta scolorando dal lilla al rosa, il mare è piatto come una tavola. Sembra il fondale di un vecchio film sui pirati, uno dei primi in technicolor. L’unico suono è la voce concitata della ragazza, che continua a parlarmi girandomi intorno. Alla fine riesce persino a svegliare tutto il campeggio. Scopro così che i topi sono ovunque, che una ragazza è stata morsa (e questo sì, è un problema), e che l’unica soluzione è organizzare una fuga strategica.
A un certo punto, la porta del mio bungalow si apre e il mio coinquilino emerge, tutto stropicciato.
“Ma si può sapere cos’è questo casino? Vi mancano solo le scope e i calderoni.”
“Non prendertela con me. È dalle cinque che cerco di tirarmene fuori.”
Lui sbadiglia. “Vieni, andiamo a cercare un posto dove fare colazione.”
Ci avviamo sulla battigia, entrambi in pigiama. In fondo alla baia troviamo un diving club dove fanno dei pancake pazzeschi. E questa, almeno, è una cosa positiva.


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