giorno 22: BOGOTÀ

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Ho visitato posti tutt’altro che easy, ma nella mia personalissima classifica delle città hardcore, Bogotà si piazza senza dubbio sul podio.

Incastonata nel cuore della Colombia, su un altopiano della Cordigliera delle Ande a 2.640 metri d’altitudine (particolare che, ingenuamente, non avevamo considerato), Bogotà ti accoglie con un freddo pungente e un cielo bianco, accecante come un neon mal calibrato.

Di sera e al mattino, i grattacieli démodé sembrano usciti da Blade Runner 2049: incappucciati da una nebbia umida e implacabile, sono l’ideale cornice per i taxi gialli con i sedili di velluto nero, sfondati e perennemente un po’ bagnati.

Ma ciò che mi ha colpito più di tutto è quella sensazione costante, mentre cammini per strada, di avere addosso gli occhi di qualcuno.

Moriah Bender via Unsplash

La giornata inizia tranquilla, per modo di dire. Ci rifugiamo nei musei, e il più particolare è senza dubbio quello dedicato a Botero. Non tanto per le opere (sebbene l’arte “oversize” abbia il suo fascino) quanto per l’allestimento: una tipica villa coloniale imbiancata a calce, con un patio quadrato e una fontana nel mezzo che sembra messa lì solo per Instagram.

Nel tardo pomeriggio scatta la missione shopping, ormai inevitabile: bottiglie di Aguardiente (per prolungare la vita notturna una volta tornati a casa), t-shirt souvenir, maglie tarocche della nazionale colombiana e calamite kitsch che farebbero inorridire qualsiasi interior designer.

Ed è qui che Bogotà decide di giocare una delle sue carte migliori. Mentre torniamo verso l’albergo, una fiumana di gente taglia il Gruppo Disagio a metà, separandoci irrimediabilmente. Rimaniamo in due, spaesati.

Mykyta Kravčenko via Unsplash

Poco dopo, un tizio alle nostre spalle ci richiama:
“Señorita, tiene la mochila abierta.”

Mi volto e controllo. Tasca inferiore dello zaino spalancata.
“Ma ti pare? Camminare in giro con lo zaino aperto… sei scema?”

Lo ammetto: sì, l’avevo notato al Museo Botero e, sì, l’avevo richiusa. Ma tanto dentro non c’era nulla di valore.
“Tranquillo,” rispondo, con una scrollata di spalle. “Portafogli, passaporto e cellulare sono al sicuro.”

In effetti, stavo camminando con le mani ben infilate nelle tasche del bomber: in una stringevo portafogli e passaporto, nell’altra il cellulare. A Bogotà, si sopravvive così: con un po’ di paranoia e tanta attenzione.

“Beh comunque richiudila, non va bene.”

E infatti. Ho staccato la mano dal cellulare giusto un paio di secondi e, quando l’ho rimessa in tasca, il telefono non c’era più.

Mykyta Kravčenko via Unsplash

Nel tentativo più disperato che realistico, abbiamo setacciato le bancarelle sperando in un miracolo, che chiaramente non è avvenuto.
Intanto, la sera ci attende una cena in grande stile, decisa per spendere fino all’ultimo pesos rimasto nella cassa comune. Peccato che il freddo pungente di Bogotà abbia stroncato le mie ambizioni fashion: addio vestito carino, benvenuti jeans e maglietta a righe con le maniche lunghe. Glamour? Diciamo che il mio unico punto di forza era che quei vestiti fossero ancora completamente puliti.

Ci accolgono dei ragazzi di Bogotà che una del nostro gruppo aveva conosciuto durante l’Erasmus. Uno di loro, in grande stile colombiano, ci invita nel ristorante che gestisce. Il patio è delizioso, le birre gelate scorrono, e tutto sembra perfetto… finché, dopo tre quarti d’ora, arriva la confessione: se fue la luz. La corrente in cucina è saltata e addio cena.

A quel punto scatta la modalità “emergenza TripAdvisor”: troviamo un altro ristorante, valido ma decisamente caro, e ci spostiamo in massa, inclusi i nostri nuovi amici e persino il cuoco.

Dopo cena, si passa alla fase due: ballare. Così, senza pensarci troppo, mi ritrovo in un taxi con persone che non conosco, diretta verso un posto che non conosco.
“Ma ti rendi conto che qui ci siamo solo io e te, in un taxi con degli sconosciuti? E se ci rapiscono per rubarci gli organi?”
“Senti, per favore. Oggi, stando con te, mi hanno già rubato il cellulare. Direi che è abbastanza.”

Il resto della nottata è un miscuglio di ricordi sfocati e la certezza di essermi divertita un sacco.

Appena entrati nel locale, ci mettono addosso delle fasce tipo Miss Colombia. Il posto è enorme, la musica (zarrissima) a tutto volume, e la gente balla persino sui tavoli. I nostri ospiti continuano a ordinare bottiglie di Aguardiente, impedendoci categoricamente di pagarne anche solo una.

In quel momento, non m’importa niente. Non del fatto che sono vestita in modo improbabile, che il mio cellulare è chissà dove, o che 24 ore dopo sarei stata su un aereo diretta a casa. Quella notte è tutto ciò che conta, ed è perfetta così.

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