È ormai ufficiale: i trekking in hangover saranno il ricordo predominante del mio viaggio in Colombia.
Dopo una colazione che definire spartana sarebbe un complimento – Nescafé solubile e biscotti di compensato, serviti tra posacenere colmi e bottiglie vuote – ci siamo messi in marcia. Come prescrivono le leggi del parco, senza crema solare, senza repellente per gli insetti ma con la tipica incoscienza da viaggiatori che pensano “Cosa vuoi che succeda?” (Spoiler: tanto).

Destinazione: Caño Cristales. Il “fiume dai cinque colori” o, come piace ai colombiani, “il fiume più bello del mondo”. La sua fama è dovuta alle sfumature rosse, verdi, gialle, blu e nere del fiume sono il risultato di un’alga acquatica chiamata Macarenia clavigera, che fiorisce in specifiche condizioni di luce, temperatura e livello dell’acqua. Il periodo migliore per visitarlo va da giugno a novembre, quando le alghe sono in piena fioritura. Durante la stagione secca, il fiume perde gran parte del suo fascino colorato, mentre durante la stagione delle piogge l’accesso potrebbe essere limitato.
Raggiungere Caño Cristales non è una passeggiata. Per arrivarci, servono una corsa in lancia sul fiume, un breve tratto in jeep e, inevitabilmente, ore di trekking sotto il sole cocente. Avvicinandosi alle rive, la vegetazione diventa bassa e graffiante, il paesaggio è tutto rocce scabre, dove è facilissimo scivolare e spaccarsi il muso. L’acqua è veramente limpida, i fondali sono rosso acceso o giallo amaranto. Anche se sembra di stare in un forno industriale, il paesaggio è unico, con cascate, piscine naturali e scogli rosso vivo. L’acqua è limpida e sembra quasi surreale.

“Ma… i quattro colori? Io ne vedo uno, massimo due”
“Sì, ha quattro colori nell’arco delle quattro stagioni“
“Mi sa che i colombiani hanno un po’ esagerato con il marketing”
“Useremo tanti filtri”
Solo che ho fame. Il pranzo, un pollo fritto avvolto in foglie di palma, non è riuscito a superare lo stadio della contemplazione: l’ho gentilmente offerto alla comunità, preferendo puntare tutto sull’acqua… che, ovviamente, perdeva dalla borraccia.

E poi ci sono i soldati. Li noto mentre mi fermo a scattare qualche foto, nel tentativo di rendere la mia agonia vagamente artistica. Tre uomini in mimetica, mitra in spalla, che ci seguono nella boscaglia. La guida non batte ciglio, quindi fingo disinvoltura anch’io. La zona, infatti, è stata per anni territorio delle FARC e oggi, grazie agli accordi di pace, è di nuovo accessibile ai turisti, anche se con le dovute precauzioni.
La guida, obbligatoria per legge, ci accompagna con una calma che rasenta l’invidiabile, raccontandoci delle alghe colorate mentre il sole ci cuoce vivi. Ma quando finalmente raggiungiamo il cuore di Caño Cristales, la vista ripaga ogni passo, ogni goccia di sudore, e persino quel pranzo mancato.

L’apice della follia collettiva lo raggiungiamo quando le riserve d’acqua sono ormai finite da un pezzo e il caldo che ci cuoce il cervello, proviamo a corrompere la guida per prendere la via più breve verso l’unica cosa che conta: una stamberga di legno con birre Poker gelate seduti al tavolo insieme ai polli. Le birre arrivano. La dignità, forse, no.
Mentre ci apprestavamo a salire sulle lance per il rientro, il cielo inizia a scaricarci addosso una pioggia battente, a grosse gocce fredde e incazzate, che pizzicavano la pelle come spilli. Una volta sbarcati, lo scenario era apocalittico: gente fradicia che correva ovunque, infilava k-way al volo e cercava disperatamente un passaggio verso la salvezza, aka l’ostello.

I luminari del Gruppo Disagio scelgono di fermarsi a bere una birra, aspettando che spiova. Spoiler: non spiove mai. Alla fine ci arrendiamo, ci lanciamo scompostamente su un risciò, stipati come sardine, mentre un piano geniale comincia a prendere forma: impadronirci della cucina dell’ostello.
Dopo un discorso epico al coordinatore e ai superstiti radunati nel patio, il Gruppo Disagio passa all’azione. Recuperiamo qualche mantella qua e là – spicca un soggetto alto due metri con una cerata troppo corta piena di smile – e partiamo in spedizione verso il supermercato. Tra gli scaffali ci organizziamo in due squadre con un obiettivo comune: cucinare pasta al tonno per l’intero ostello.

Quando finalmente tutto è pronto, nel patio non vola una mosca. Le persone, distribuite un po’ ovunque, attendono in silenzio sacrale. Dopo due giorni a stomaco quasi vuoto, la prima forchettata è pura poesia. Mi emoziono. Letteralmente. E procedo a mangiarne tre piatti. Poi arriva il food coma, seguito da un paio di Cuba Libre improvvisati per cercare di digerire.
Quella serata, tra piatti condivisi, risate e bicchieri alzati, si trasforma in una delle più belle di tutto il viaggio.

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