La sveglia suona così presto che ci ritroviamo a fare colazione in un aeroporto deserto. La missione impossibile è scovare qualcosa da mangiare che non contenga queso. Alla fine, optiamo per una torta al cocco che però sa di cannella (?) ed è pesante come un mattone.
Ci accampiamo in una sala d’attesa spoglia e gelida, degna di un film post-apocalittico. Temperatura percepita: 1°C. L’attesa è interminabile, ma finalmente ci imbarchiamo su un piccolo bielica, che sembra più un giocattolo che un aereo vero e proprio. Il nostro potente mezzo ha qualche problema a cavalcare i vuoti d’aria, tanto che non mi sento proprio serena nemmeno io, che non ho mai avuto problemi a volare. Dormire? Impensabile. Recuperare anche solo qualche minuto di sonno? Un miraggio.

Quando atterriamo (su un prato, ovviamente), assistiamo a uno spettacolo da manuale: la porta della cabina di pilotaggio si apre, cade un pezzo di copertura e, dalla prima fila, cade giù una mascherina per l’ossigeno. Benvenuti a La Macarena.
L’aeroporto militare è una casetta imbiancata a calce, circondata da bielica sparpagliati sul prato con tanto di barricate, ricordo tangibile del fatto che qui, fino a pochi anni fa, era una zona di guerriglia. Tiro fuori la mia Kodak usa e getta, ma non faccio in tempo a scattare che, dalla barricata, sbuca un soldato in mimetica con elmetto e occhiali a specchio, che mi saluta con un allegro: “Hello! No photos”.
La Macarena è un piccolo villaggio nella regione di Meta, incastonato tra giungla e pianure. È famosa soprattutto perché funge da punto d’accesso a Caño Cristales, il cosiddetto “fiume dai cinque colori,” che attira visitatori da tutto il mondo grazie alle sue alghe multicolori che trasformano l’acqua in una tavolozza naturale.

La cittadina ha un’atmosfera semplice e autentica. Le sue strade sterrate sono percorse da motociclette truccate e cavalli che girano liberi, mentre le case colorate e i piccoli negozi offrono uno spaccato della vita rurale colombiana. Nonostante la sua tranquillità attuale, La Macarena ha un passato segnato dal conflitto: fino al 2016 era un’area controllata dai guerriglieri delle FARC, e ancora oggi si possono vedere segni di quel periodo, come le barricate militari e i soldati che presidiano il territorio, con le loro dentature bianchissime e i mitra a tracolla. Temperatura percepita: 45°C, umidità 200%.
Tra le esperienze da fare ci sono i trekking verso Caño Cristales e i suoi dintorni, come Cristalito e altre aree naturali protette. Questi percorsi offrono non solo panorami dalla bellezza selvaggia, ma anche un’immersione totale nella giungla, con la sua fauna e flora unica. Non è un luogo per chi cerca comfort o lusso, ma è una destinazione imperdibile per chi vuole vivere un’avventura genuina e scoprire un lato meno battuto della Colombia.

Prima tappa: briefing. Ci ammassiamo in una stanza soffocante, dove le sedie di plastica non bastano per tutti. Qui ci spiegano che Caño Cristales è una riserva naturale e che quindi sono vietatissimi crema solare, repellente per insetti e qualsiasi forma di plastica usa e getta. Ma tranquilli, ci pensano loro a venderci delle borracce… di plastica. La mia, ovviamente, perde.
Ci portano poi a pranzo sotto un grande tetto di lamiera. Il menu? Pollo fritto di dubbia provenienza. Ne offro un pezzetto a un randagio spelacchiato che passa di lì, ma il suo sguardo è eloquente: “No, grazie”.
E così partiamo per il trekking, rigorosamente sotto il sole cocente delle ore peggiori. Se il caldo non ci uccide, forse lo farà la giungla. Ma l’avventura è appena iniziata.

Per raggiungere Cristalito, ci imbarchiamo su una canoa che scivola lentamente su un fiume fangoso dall’aria vagamente inquietante, roba da film sul Vietnam. Dopo questa parentesi fluviale, iniziamo l’arrampicata: mosquitos ovunque, il caldo che ti offusca la testa e i nervi già messi a dura prova. Nel tentativo di estrarre il cellulare dalla custodia waterproof, ovviamente mi cade e si frattura lo schermo. Pomeriggio ufficialmente RO VI NA TO.
Qualcuno, nella sua ingenuità, mi chiede se il posto mi piace:
“Spero che spianino tutto con una colata di cemento e ne facciano un parcheggio,” rispondo, senza pensarci troppo.
Una ragazza del gruppo scoppia a ridere, e io mi giro per nascondere il fatto che, sotto sotto, sto ridendo anch’io.

Proseguiamo attraverso collinette coperte di piante basse, con foglie grasse e lucide e fiori bianchi che sembrano fazzoletti. Qua e là, macchie nere interrompono il verde: terra bruciata e monconi di vegetazione carbonizzata. Sono le cicatrici lasciate dalle granate, ai tempi in cui le FARC combattevano in questa zona.
Cristalito è un piccolo fiume dalle acque trasparenti, con un fondale tappezzato di lunghe alghe rossastre che ondeggiano nella corrente. Ci sarebbe anche la possibilità di fare il bagno, ma ormai la testa è già proiettata altrove, più precisamente in un posto qualsiasi dove servano birre ghiacciate.
Sulla via del ritorno verso le canoe, ci imbattiamo in una radura squadrata, con delle palme posizionate in modo stranamente geometrico: un ex accampamento delle FARC. L’atmosfera è surreale, e non vediamo l’ora di rimettere piede al paese.

Lì ci fermiamo per l’aperitivo in un bar interamente in cemento, perfetta incarnazione del minimalismo tropicale. L’offerta è spartana: patatine dal sacchetto e una Club Colombia a testa. Seduti fuori, attiriamo gli sguardi curiosi dei passanti, che si prendono la libertà di urlare commenti non richiesti su quella strana comitiva composta da tre donne e sei uomini.
La cena è alla festa del paese, sotto l’immancabile tetto di lamiera. Look della serata: scarponi da montagna, shorts di jeans, maglietta bianca e bomber. Il menu offre una scelta tra manzo e maiale, ma dopo un primo assaggio realizziamo che il termine commestibile qui è opinabile. Il manzo è una suola di scarpa, mentre il maiale ci regala la sorpresa di una cotenna con tanto di setole. Dopo un breve consulto, decidiamo di concentrarci unicamente sulla birra.

Questo probabilmente spiega perché, quando i locals ci trascinano sul palco a ballare la Cumbia, ci sembra improvvisamente una gran bella idea.
Tornati in ostello, ci accampiamo con rum scadente e una scorta di cioccolato recuperata in un supermercatino sorprendentemente ben fornito. Uno dopo l’altro, gli altri cominciano a mollare, trascinandosi verso i letti, finché rimaniamo solo in due: una sedia a dondolo, un’amaca e una bottiglia mezza vuota.
“Andiamo a dormire?”
“Ti prego, no. Hai sentito come russano là dentro? Se entro ora, sarà impossibile chiudere occhio.”
Dalle quattro camere arriva un concerto di russate, ciascuna con il suo timbro inconfondibile, che ormai sappiamo identificare senza esitazioni. A turno le imitiamo, ridendo come matti. Restiamo lì a lungo, cercando di soffocare le risate per non svegliare tutto l’ostello… ma senza troppo successo.


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