giorno 17: RAQUIRA

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Se il nostro rientro trionfale nel mondo civilizzato si è compiuto scendendo dall’aereo in ciabatte, pantaloncini e giacca a vento (un mix perfetto tra turista spaesato e atleta in vacanza), la vera sorpresa è stata la cena in un ristorante vero. C’era persino una tovaglia sul tavolo! Dopo giorni di sabbia e improvvisazioni, sembrava quasi un lusso. A seguire, ci siamo divisi in tre loft che sembravano usciti da Pinterest, nella Zona Bella di Bogotà, Usaquén, dove finalmente abbiamo potuto fare una doccia vera, senza sentirci nell’edizione colombiana de La Fattoria.

La notte, però, non è stata all’altezza delle aspettative: il divano letto super instagrammabile si rivela subito scomodissimo, e al mattino ci aggiriamo per la zona a gruppetti, ancora assonnati, alla disperata ricerca di un bar aperto. Intorno a noi, prati impeccabilmente rasati, colombiani in tuta che portano il cane a fare pipì e Starbucks con le saracinesche ancora abbassate. Potremmo quasi essere a Los Angeles o in qualunque altra città del mondo alle sei del mattino, ma rigorosamente senza caffeina.

Finalmente carichiamo il pullman e partiamo. Dopo ore di tornanti che si perdono tra cieli bianchi e teste ciondolanti, ci fermiamo in un paesino di cui non ricordo neanche il nome. Nella piazza della chiesa ci accolgono un negozio di chitarre, un signore con una bambina e una macchina del caffè Rancilio enorme, montata su ruote come una specie di carro del miracolo caffeinico.

La cittadina è San Juan de Pasto, spesso semplicemente chiamata Pasto. Situata nel dipartimento di Nariño, è celebre per la sua tradizione nella liuteria, con artigiani che producono strumenti di altissima qualità, in particolare chitarre, charangos e altri strumenti a corda.

Ripartiamo. Ancora tornanti, ancora cieli bianchi, ancora teste che ondeggiano a ritmo del motore.

«Ma… dov’è che stiamo andando?»
«Boh, in un posto dove fanno la terracotta.»
«Ah, ok.»

Raquira, il “posto dove fanno la terracotta”, è la cosiddetta capitale colombiana della ceramica (la Lonely Planet tende a esagerare). È un paesotto con case colorate che si accavallano sui lati della strada principale, praticamente un’enorme sfilata di negozi di souvenir. Molti laboratori offrono anche dimostrazioni del processo di lavorazione della terracotta, dalla modellazione all’essiccazione e alla cottura nei forni.

Ci aggiriamo per questi negozi scazzatissimi, cercando di fingere entusiasmo davanti a un esercito di ciotole, vasi, piatti, e improbabili statuette.

«Sembra di fare il tour delle pentole.»

Alla ricerca di emozioni più forti e armati di magneti a forma di bottiglie di birra Poker (il marchio più tamarro in circolazione), decidiamo di abbandonare la strada principale, piena di facciate dipinte in colori troppo sgargianti e autobus carichi di turisti. Vagando, ci lasciamo ipnotizzare da un ambulante che modella dolci di caramello con le mani, in modo un po’ inquietante. Finiamo anche per comprarne uno, più per curiosità che per gola.

Arriviamo a Villa de Leyva sul tardi. È un villaggio coloniale perfettamente conservato, con il tipico fascino da cartolina sudamericana: intonaci bianchi, pietra grigia e un’aria un po’ troppo ripulita per sembrare reale. Il nostro autista, però, rovina subito l’idillio, infilando il pullman in una stradina acciottolata da cui non riesce più a uscire. Per un attimo temiamo che gratti la fiancata contro le case, trasformando l’arrivo in un’esibizione di parcheggio estremo.

Nonostante tutto, siamo in un posto decisamente carino (il che significa che non ci resteremo a lungo). Il piano per il giorno dopo prevede addirittura una mattinata libera, ma per ora l’attenzione è tutta concentrata sulla serata e sulle sue potenzialità bellicose.

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