Nonostante la sbronza di Chirrinchi della sera prima (e l’inquietante assonanza con “cirrosi”), alle sei del mattino siamo svegli e, incredibilmente, freschi. Non so come. Forse il deserto ha poteri rigeneranti, forse è il pensiero che dobbiamo tornare a Riohacha e prendere un volo interno per Bogotà.
Lungo il tragitto, ci concediamo una tappa a Playa Taroa, dove le dune gialle si innalzano come palazzi di sei piani prima di tuffarsi nel mare. Guardare giù dalla cresta è da capogiro: le gambe sembrano inchiodate, il cuore batte un po’ più forte. Poi fai un respiro, inizi a correre e, in un attimo, sei giù, il vento che ti ruba il fiato e i granelli di sabbia che si infilano ovunque.

Ripartiamo, o meglio, ci proviamo. La jeep, miracolosamente riparata durante la notte, inizia a dare i primi segni di cedimento. Prima rabbocchiamo l’acqua ogni quaranta minuti, poi ogni venti, poi ogni cinque, finché esauriamo anche le riserve d’acqua da bere e ci ritroviamo fermi, sotto il sole cocente, nel bel mezzo del nulla.
Siamo in viaggio da sette ore e ne mancano ancora quattro. La tensione si taglia a fette: abbiamo un aereo da prendere e il tempo sta per finire.

Qualcuno viene “salvato” da un altro gruppo di passaggio (per qualche strano motivo, tutti partono dopo di noi per arrivare alla stessa ora). Noi superstiti ci stringiamo come sardine sui due fuoristrada ancora funzionanti, incrociando bene le dita. Ma i colpi di scena non sono finiti: alla nostra macchina si rompe il condizionatore. Proseguiamo quindi con i finestrini abbassati, con un vento bollente che ci schiaffeggia senza pietà e nuvole di sabbia che ci impanano dalla testa ai piedi. Chiudere gli occhi diventa una necessità, più che un’opzione.
Questi giorni nel deserto sono stati un’esperienza molto Mad Max: Fury Road, solo con meno esplosioni e più biscotti ai bambini. Appena metto piede a Riohacha, la prima cosa che faccio è aprirmi una birra fresca in un ristorantino sul Malecón. Una cerimonia, più che un gesto: un saluto ufficiale al deserto e alla sua polvere infinita.

Ho lasciato alle mie spalle una scia di vestiti così sporchi da sembrare irrecuperabili e ho detto addio alle mie fidate Adidas Superstar, ormai distrutte, durante un rocambolesco cambio d’abiti nella hall dell’aeroporto. Dopo aver macinato chilometri insieme, non poteva esserci un finale migliore: una corsa sulle dune e poi, finalmente, il riposo.
A Bogotà ci accoglie il buio e un’aria inaspettatamente pungente. L’escursione termica rispetto a La Guajira è di 25 gradi netti, e noi siamo ovviamente in pantaloncini e ciabatte. Più che una sensazione di fresco, è un assaggio d’inverno che ci coglie completamente impreparati.
Comunque, siamo solo di passaggio.


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