Abbiamo lasciato Riohacha di buon mattino e ci siamo distribuiti su tre jeep 4×4 che, contro ogni pronostico, si sono rivelate moderne, spaziose, fresche e — sorpresa delle sorprese — comodissime. Cosa che, ovviamente, può significare solo una cosa: tra poco rischieremo la pelle.
Destinazione: Cabo de la Vela. Arrivarci è già un’avventura in sé: un viaggio lungo e polveroso, attraversando strade sterrate e paesaggi desertici. Il nostro autista sembra convinto di trovarsi in una versione colombiana di Need for Speed, mentre io tento disperatamente di godermi gli ultimi istanti in cui non sono sudata come un muratore a mezzogiorno e indosso ancora vestiti puliti. So già che questo stato di grazia finirà molto, molto presto.


Attraversiamo la penisola della Guajira, dove il deserto incontra il mare e le strade sterrate si intuiscono più che vedersi. Ogni tanto ci imbattiamo in posti di blocco, ma non c’è traccia di polizia: solo bambini magri, della comunità indigena Wayuu, che tendono le mani chiedendo acqua o riso come pedaggio.
Qui si è a contatto con la Colombia più selvaggia e autentica, senza pretese di comfort o lusso. Non c’è elettricità costante, il Wi-Fi è inesistente e l’acqua dolce è un lusso. Ma proprio questa semplicità è parte del suo incanto.
Ci sono solo dune di sabbia arida che si tuffano direttamente nell’oceano, e un mare verde e trasparente come un coccio di bottiglia, increspato da onde lunghe e piatte.

Cabo de la Vela è un villaggio di pescatori, con semplici rancherías (capanne tradizionali) dove i Wayuu vivono e accolgono i viaggiatori. Non ci sono grandi hotel o ristoranti chic: la maggior parte dei visitatori dorme su amache sotto tetti di paglia, cullati dal rumore delle onde e dal vento costante. In compenso, qui il cielo sembra infinito, con tramonti che incendiano l’orizzonte e notti così buie da permettere di vedere ogni singola stella.
Tra i luoghi da visitare ci sono Playa Arcoiris, la vicina Playa Ojo de Agua e il promontorio di Pilón de Azúcar, dove il panorama è spettacolare. Per non farci mancare nulla, dopo un paio di bagni, ci siamo arrampicati sul Pilón de Azúcar — io, ovviamente, in ciabatte, per rispettare la sacra tradizione del mio annuale trekking in infradito. Una volta in cima, ci siamo goduti il panorama mentre il vento ci sballottava come panni stesi.


Poi siamo saliti fino al faro, birra fresca in mano, per goderci il tramonto che si tuffava nel mare. Qui, così vicini al confine con il Venezuela, si beve la Polar: ha un retrogusto vagamente ferroso, ma non è male. O forse è solo che, dopo una giornata nel deserto, va bene qualsiasi cosa sia fredda e alcolica.
Ho realizzato di essere ufficialmente nella terza settimana di viaggio quando mi sono resa conto che la privacy non esiste più e che i discorsi hanno raggiunto un livello di intimità imbarazzante. A confermare il tutto, il fatto che da quindici giorni mi lavo i denti con acqua non potabile, spesso illuminandomi con il cellulare perché qui il generatore non arriva alla notte.

Il vero momento clou è stato però il rientro alle nostre cabañas, quando ho trovato… le cacche. Di topo, ovviamente. La mia reazione? Presentarmi a cena e dichiarare, con solenne disperazione, che mi sarei ubriacata per dimenticare il mio coinquilino a quattro zampe.
Spoiler: ho mantenuto la promessa. Sei Polar e una notte di sonno decente dopo, la situazione sembrava quasi gestibile.



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