Ieri sera, invece di dormire in ostello con gli altri, ho trovato rifugio in una hacienda super chic, con la piscina nel patio, piattoni di frutta fresca per colazione, e una cameriera che ci chiamava “Señora.” Secondo le regole non scritte dei viaggi zaino in spalla, dopo un trattamento così, la tragedia dovrebbe essere dietro l’angolo.

Prima di andare via, compro un braccialetto di stoffa colorata, giusto per supportare l’economia locale di Mompox. Alle sette del mattino, il caldo è già opprimente. Poi arriva il nostro autista, El Gordito, ci carica sul pullman e parte in quarta: destinazione Aracataca. El Gordito guida come un matto sulle strade dissestate di campagna e sui tornanti, sorpassa alla cieca e, ad ogni manovra azzardata, ci guarda nello specchietto tutto compiaciuto, con i pollici alzati, come a dire: tutto bene anche stavolta. La sua playlist è così tamarra che, alla fine, fa quasi il giro e rimane… tamarra.
Aracataca è una piccola cittadina nel dipartimento di Magdalena, famosa per essere il luogo di nascita di Gabriel García Márquez, uno dei più grandi narratori latinoamericani e il padre del realismo magico. Passeggiando per Aracataca, è impossibile non notare i riferimenti a Cien años de soledad, il suo capolavoro, perché questa cittadina – con le sue atmosfere polverose e il ritmo lento scandito dal caldo tropicale – ha ispirato l’immaginaria Macondo. Sembra quasi che i personaggi, gli eventi e i dettagli surreali del romanzo emergano dai muri, dalle strade, dalle piazze. È un luogo dove il confine tra realtà e fantasia è così sottile da sembrare inesistente.

Uno dei punti di riferimento è la Casa Museo Gabriel García Márquez, che ricostruisce la casa dei nonni dello scrittore e ospita foto, oggetti personali, e scritti, offrendo un’immersione nella sua infanzia e nell’atmosfera della sua narrativa. La casa è semplice, tipica della regione, e le stanze sono state allestite per evocare quel mondo in cui García Márquez crebbe, influenzato dalle storie di famiglia e dai racconti di sua nonna.
Aracataca è pervasa da un fascino nostalgico e quasi surreale. Le sue strade silenziose, i vecchi edifici color pastello e il verde che circonda il fiume lasciano intravedere una Colombia autentica, in cui in qualche modo il tempo sembra essersi fermato: i carretti trainati da cavalli, i bambini che giocano scalzi, gli anziani che osservano la vita passare all’ombra delle verande rievocano proprio quell’aria sospesa e un po’ magica tipica della Macondo di Márquez.

L’aria è rovente, Davide si è appena preso un a Tachipirina e la sua anima sembra in fase di sublimazione. Dividiamo un pollo allo spiedo in un bar piastrellato di azzurro, bevendo birra Poker in lattina e mangiando con le mani mentre dei cani rossicci si infilano sotto il tavolo. Quando ho letto per la prima volta Cent’anni di solitudine o Dell’Amore e di altri demoni, non immaginavo davvero che un giorno mi sarei ritrovata proprio qui, a mangiare del pollo.
Nel tardo pomeriggio arriviamo a Santa Marta, luogo di perdizione. Sono già alla quarta birra e non ho ancora cenato. Il tempo di fare il check-in in ostello, mollare lo zaino e tirare fuori il costume e andare a godersi la golden hour.

Sul terrazzo dell’ostello c’è una luce arancione spettacolare e una vista a 360° sui tetti sgangherati della città. Al tramonto aprono il bar, attivano le due Jacuzzi, si accendono i fili di lucine, e alla radio trasmettono Manu Chao. Il Gruppo Disagio si è sistemato su qualche sdraio, da lì ci passiamo delle sigarette. Mi sono legata in vita il sari verde che ho portato a casa dall’Indonesia, ho una bottiglia di Club Colombia in mano, mi sento bene. Per un attimo, è come avere 14 anni di nuovo… però molto meglio.


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