giorno 7: MOMPOX

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Siamo partiti dalle camere triple, poi siamo passati a quelle da 6, poi da 8, poi da 10. La prossima volta potremmo stare tutti e 16 insieme in una camerata da 24, con qualche sconosciuto. L’aspettativa minima era di avere almeno un letto a testa, ma sapevamo che non sarebbe stato garantito.

Intanto, abbiamo lasciato Cartagena per addentrarci nell’entroterra, verso la cittadina di Mompox, che raggiungiamo nel pomeriggio, dopo molte ore di campagna e mucche. Nell’ostello giallo che ci accoglie, l’unico in città e pure carino, manca una stanza e quattro persone sono rimaste senza letto. Tra i “fortunati” ci sono anch’io. Con la promessa che il problema verrà presto risolto e non occorre preoccuparsi, lasciamo i bagagli nel patio e iniziamo a visitare i dintorni a piedi, sotto il sole e con una temperatura simile a quella di un forno a legna.

Mompox (o Santa Cruz de Mompox) è una cittadina storica colombiana lungo le rive del fiume Magdalena, a circa sei ore da Cartagena. Dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ha mantenuto il suo carattere coloniale intatto, come se i secoli l’avessero sfiorata senza mai davvero trasformarla. Camminare per le sue strade è un po’ come vivere in un romanzo di Gabriel García Márquez: questo è il tipo di posto che ha ispirato il realismo magico.

Si dice che Mompox sia il posto più caldo della Colombia, e io a queste dicerie in particolare mi sa che ci credo. Fondata dagli spagnoli nel 1540, la città prosperò per secoli come un’importante stazione commerciale lungo il fiume Magdalena. Poi, quando il corso del fiume cambiò, Mompox rimase isolata, conservando intatto tutto il fascino della sua architettura coloniale: case bianche con tetti di tegole rosse, portici dalle colonne di legno colorato, chiese barocche e piazze silenziose che sembrano sospese nel tempo.

Tra le attrazioni principali (che non sono molte) spiccano la Chiesa di Santa Bárbara, con il suo insolito campanile che ricorda una torre di guardia, e il Cimitero di Mompox, popolato da numerosi gatti e punteggiato da tombe bianche, statue e croci in ferro battuto.

Più che per delle chiese da visitare o monumenti da fotografare (non manca quello a Simon de Bolivar), però, questa cittadina merita di essere vista per la sua atmosfera, per passarci un pigro pomeriggio mentre si cerca di resistere al caldo opprimente o una serata seduti ai tavolini del bar nella piazza del Municipio.

Mompox ha fatto da sfondo a diversi film e serie, pur non essendo una delle location cinematografiche più famose della Colombia. Tra le produzioni più note girate qui c’è Crónica de una Muerte Anunciada (Cronaca di una morte annunciata), adattamento del celebre romanzo di Gabriel García Márquez, diretto da Francesco Rosi e uscito nel 1987, con Ornella Muti e Rupert Everett tra i protagonisti.

La città compare anche in produzioni più piccole e documentari che esplorano la cultura colombiana, spesso per evocare il realismo magico di García Márquez e mostrare la straordinaria architettura coloniale di Mompox. La storia della città, legata all’epoca della colonizzazione e alla tratta degli schiavi, la rende uno scenario perfetto.

Visitare Mompox significa abbandonarsi alla sua calma, assaporare un’arepa o un boccone di queso de capa e godersi un tramonto su una sedia a dondolo lungo le rive del Magdalena, che scorre lento e verde. Arrivarci non è semplice, ma sono contenta di essere qui.

Lontana anni luce dal ritmo frenetico delle città moderne, Mompox regala pomeriggi che scorrono lenti, con le ore scandite dal rintocco delle campane, dal passaggio dei calessi e dalle note di vallenato che si diffondono per le strade. L’ultima tappa del nostro giro è un laboratorio orafo: Mompox è rinomata anche per l’artigianato in oro e argento, grazie alla tecnica della filigrana, un’arte raffinata portata dagli spagnoli e diventata ormai una tradizione radicata.

Ormai, mi sono anch’io convinta che il fatto di non sapere ancora quale sarà il mio riparo per la notte non sia così grave. Una soluzione, alla fine, si troverà. Intanto, si è fatta l’ora dell’aperitivo, quindi il “Gruppo Disagio” si accampa presso un chiosco lungo il fiume, circondato di sedie e tavolini di plastica colorati.

Sono lì che sorseggio la mia Club Columbia fresca, con ancora con lo zainone verticalone in spalla, quando mi viene a cercare il ragazzo dell’ostello giallo. Così, accompagnata dalle supposizioni degli altri su quanto sarà terribile il posto dove dormirò, mi incammino con altre tre compagne di viaggio verso la piazza del Municipio, bottiglia in mano, mentre il cielo si fa scuro di colpo.

Una volta lì, veniamo consegnate ad un signore alto e gentile, completamente vestito Nike e fradicio di sudore, come se gli avessero appena rovesciato addosso un secchio d’acqua: è appena rientrato da una corsa, e si scusa tanto. Il resto dei nostri bagagli ci ha già preceduto, trasportato su un risciò che qualcuno ha già pagato.

Dietro un portone di legno scuro borchiato, si apre una hacienda da sogno, tutta muri in calce, sedie di vimini e travi a vista, accogliente ma chic, insomma qualcosa che non avrei mai immaginato. La prima cosa che penso di fare è infilarmi il bikini e buttarmi nella piscina turchese nel patio, sotto un cielo nerissimo e pieno di stelle. È il 10 agosto, la notte di San Lorenzo, ma mi sembra che non ne stia cadendo nessuna. Non si può avere tutto. Mando una serie di selfie agli altri rimasti in ostello.

Più tardi, seduta in piazza al tavolino dell’unico bar ancora aperto, piena di arroz momposino e con un mojito annacquato in mano, penso che è esattamente per giorni come questo che ho aspettato un anno intero di essere qui.

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