giorno 2: VALLE DEL COCORA

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Mi sveglia un rumore assordante: la pioggia. Fuori è ancora buio, fa freddo e ha diluviato per tutta la notte. Ho dormito tre ore. La finca attorno a me ha l’aria placida ma malinconica nelle prime ore del mattino: un prato verdissimo, una piccola piscina che sembra sospirare nel grigiore delle ultime gocce di pioggia, e un patio dove ci servono, con estrema calma, frutta e pancake per colazione.

Il programma prevede una bella giornata di trekking nella Valle del Cocora, sulle Ande colombiane, nel dipartimento di Quindío. Poco importa se il jet lag è ancora lì che pulsa o se le ore di viaggio del giorno prima ci hanno sfiancati: si parte comunque. La Valle del Cocora è famosa per le sue spettacolari palme di cera, che possono facilmente arrivare fino a 60 metri d’altezza. Sottili, verdi, sembrano spuntare direttamente dalle colline nebbiose, creando un paesaggio quasi surreale. Queste palme sono le più alte al mondo e il simbolo nazionale della Colombia.

La valle fa parte del Parco Nazionale Los Nevados, un’area protetta ricchissima di specie endemiche di flora e fauna. Tra i residenti più appariscenti ci sono i colibrì dalle piume arcobaleno e le orchidee che punteggiano il paesaggio. Chi ama il trekking qui trova pane per i suoi denti: ci sono sentieri come il sentiero del Mirador o il cammino verso Acaime, dove si possono incontrare punti di ristoro per osservare i colibrì.

Si parte in pullman verso una cittadina colorata e accogliente che, senza apparente logica, si chiama Salento. Da Salento partono regolarmente le tradizionali Willys (jeep d’epoca), utilizzate storicamente per il trasporto di caffè e persone nella zona. Scelgo di fare il cammino verso Acaime, per gli amici “il trekking lungo”, decisione di cui mi pentirò più volte nel corso della giornata (per poi ritrattare alla fine e dichiarare che è fighissimo). Con quello corto mi annoierei sicuramente e potrei perdermi qualche scorcio che vale la pena fotografare.

Ci aspetta una maratona di circa 18 km, quasi tutti in salita. Ha smesso di piovere, ma il sentiero è ormai una distesa di fango grigio in cui sprofondiamo fino alla caviglia, se va bene. Ogni tanto incontriamo un ponte sospeso su cui ripassare il calendario, oppure un guado. Al primo siamo tutti attentissimi a non bagnarci, ma prima o poi il piede finisce nell’acqua gelida con tutta la scarpa, e a quel punto, pazienza. Siamo infangati dalla testa ai piedi, e a un certo punto mi ritrovo pure uno sbaffo di fango sulla guancia.

Arriviamo alla casa dei colibrì verso l’una, giusto in tempo per guadagnarci un bicchiere di Coca e riprendere fiato, facendo qualche foto agli uccellini che svolazzano attorno. Alla tanto attesa vallata delle palme arriviamo nel pomeriggio, dopo una salita ripidissima che mi ha regalato qualche visione mistica e un paio di rimpianti esistenziali. Qui il vento è fortissimo, e le palme, alte come palazzi di nove o dieci piani, oscillano a tal punto che nelle foto le chiome sono tutte sfuocate. Le nuvole sfrecciano sopra di noi come in un timelapse.

L’ostello si rivela una piacevole sorpresa, molto più carino di quanto immaginassi, e l’acqua della doccia è così calda che quasi non ne vorrei più uscire. Ora che sono pulita e con i vestiti asciutti, posso apprezzare meglio Salento: le sue case coloniali dai balconi vivaci, dipinti di blu, giallo e rosso, la sua atmosfera rilassata, le stradine fiancheggiate da negozi di artigianato, caffetterie accoglienti e ristoranti che servono specialità locali, come la trucha con patacones (trota fritta con frittelle di platano), che qui è una vera istituzione.

A cena mi concedo una bistecca più grande della mia testa e due birre medie. Salento, di sera, è quieta: qua e là ci sono alcuni uomini del posto in camicia di flanella che si sfidano a tejo, un gioco tradizionale in cui si lanciano dischi di metallo su piccoli pacchetti di polvere da sparo che esplodono al contatto, e a biliardo, bevendo qualche birra.

E finalmente, riesco a dormire.

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