giorno 11: verso KISORO

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“C’è qualcosa che non va, ho rifatto lo zaino alla cazzo. Il peso è sbilanciato, lo sento tutto da una parte mentre cammino.”

Fare e disfare lo zaino è ormai diventato parte della routine. Dentro è tutto un caos: da giorni cerco di mantenere una separazione tra le cose pulite e quelle sporche, sporchissime, e quelle che sono in quarantena e andrebbero messe direttamente al rogo. C’è sempre qualcosa che non riesco a farci stare. Oggi è il sacco lenzuolo, ieri erano le scarpe, legate fuori in qualche modo. Ogni volta mi sorprendo che le cuciture reggano, anche se ad ogni tappa mi lascio dietro qualcosa: un paio di calzettoni pieni di spine, un asciugamano sporco di terra, una maglietta che diventerà parte del guardaroba di qualcun altro.

Anche caricare il van è diventato una routine: stendiamo tutti i bagagli a terra e Abdul ci indica cosa passargli, cercando di incastrare tutto come in un Tetris precario. Ogni tanto una buca, un dosso o una curva ci fa cadere qualcosa in testa o in braccio. Noi ridiamo, lo rimettiamo a posto, e si va avanti.

Nel pomeriggio arriviamo a Kisoro, ai piedi dei monti Virunga, da dove partono i trekking per vedere i gorilla. La cittadina ha il suo fascino, con un paio di bar carini e persino qualche turista bianco in giro, un po’ come noi.

Dopo dieci giorni di caffè solubile, che sembra più una punizione che una bevanda, l’avvistamento di una macchina del caffè italiana ci commuove quasi fino alle lacrime. Mi sono comprata una casacca della nazionale di calcio ugandese, perfetta per mescolarmi alla folla… o almeno provarci.

Nessuno lo dice a voce alta, ma l’hype per i gorilla è alle stelle.

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