Nelle saline del Lago Katwe, all’interno del Parco Nazionale Queen Elizabeth, il sale viene ancora estratto attraverso metodi tradizionali. Non sempre però tradizionale è cosa buona.

Il lago è diviso in piccole pozze artificiali costruite a mano dai lavoratori locali. Ogni pozza appartiene a una famiglia o a un gruppo che ne gestisce la produzione. Durante la stagione secca, l’acqua nelle saline evapora sotto il sole cocente, lasciando depositi di sale sul fondo delle pozze. Una volta che il sale si è depositato, viene raccolto manualmente con pale. Il sale è poi lavato con l’acqua del lago per purificarlo prima di essere ammucchiato e asciugato al sole. Lavorare nelle saline del Lago Katwe è pesantissimo. L’alta concentrazione di zolfo irrita la pelle e gli occhi dei lavoratori, che non hanno protezioni adeguate, e l’acqua salata provoca lesioni cutanee, specialmente ai piedi.
Tra la puzza di zolfo che ti entra nelle narici come un pugno, il sole che picchia senza pietà e i racconti delle sofferenze di è costretto a lavorare lì, l’umore era talmente sotto zero che per tirarci su abbiamo iniziato a fare le corna in testa alla guida, proprio come fanno i ragazzini nelle foto di classe.

Il Parco Nazionale Queen Elizabeth è una tappa imperdibile per chi visita l’Uganda e l’Africa orientale. Situato nella parte sud-occidentale del Paese, copre un’area di circa 1.978 chilometri quadrati e si estende tra i laghi George e Edward, collegati dal canale di Kazinga.
Uno dei grandi simboli del parco sono i leoni arboricoli della regione di Ishasha, che hanno la curiosa abitudine di arrampicarsi sugli alberi, cosa rara in altre parti dell’Africa. Il parco è anche popolato da numerose famiglie di elefanti, che possono essere avvistati mentre attraversano la savana o si rinfrescano sulle rive del canale di Kazinga.
Proprio mentre guidiamo verso l’ingresso del parco, un elefante decide di attraversarci la strada con tutta la calma del mondo per andare a bere nel canale. Dopo molte insistenze, riusciamo a convincere Abdul a farci scendere. Così ci troviamo a pochi metri da una famiglia di elefanti: uno di loro, probabilmente la matriarca, ci fissa senza staccarci gli occhi di dosso. Dall’altro lato, tranquilli come in una domenica mattina alla SPA, se ne stavano gli ippopotami. Ecco, ripensandoci, la situazione poteva degenerare da un momento all’altro, e infatti Abdul si è preso una cazziata memorabile dal suo capo per averci lasciati fare. Mi è dispiaciuto per lui ma, detto tra noi, quello è stato il momento clou della giornata.
Il resto del pomeriggio lo abbiamo passato a girovagare per ore, alla ricerca dei famigerati leoni. Quando le gazzelle hanno iniziato a drizzare le orecchie e a fare movimenti sospetti, abbiamo incrociato le dita sperando nel grande momento. Ma niente, i leoni hanno preferito rimanere dietro le quinte.

La ciliegina sulla torta? Nella guest house dove avremmo dovuto dormire mancava tutto: soprattutto l’acqua corrente, proprio quando ne avevamo più bisogno. C’è stato chi si è arrangiato a secchiate, chi ha trovato rifugio nella doccia comune della reception. Miracolosamente, siamo riusciti anche a mettere le mani su delle birre fresche. E alla fine, sotto una stellata hollywoodiana e con i ruggiti dei maledetti leoni in lontananza, tutto è sembrato un po’ meno complicato.

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